La debolezza umana incontra la forza della Grazia
Eminenza,
a nome di tutta la comunità diocesana di Catanzaro ‐ Squillace, Le rivolgo un cordiale benvenuto e un caloroso saluto, ringraziandoLa per il dono della sua presenza in mezzo a noi in questo giorno di letizia e di giubilo. Inoltre, in questa occasione del tutto inattesa, Le rinnovo con grande piacere la mia personale stima, la mia gratitudine e il mio affetto filiale.
Attraverso di V. E. voglio anche esprimere la mia gratitudine e la nostra filiale devozione al nostro amato Papa Francesco che Lei oggi rappresenta ufficialmente.
V. E. viene oggi in una terra complessa, attraversata da ataviche lacerazioni sociali e morali, una terra che, fin da quando è stata visitata dal dono dell’annuncio del Vangelo, ha generato numerose e peculiari testimonianze di santità. Certamente le nuove beate di oggi sono la prima espressione di questa comunità, che dopo il 1986 forma l’unica Chiesa locale di Catanzaro‐Squillace, ma i frutti della santità sono nati in questa terra con grande fecondità nel corso dei secoli con i numerosi santi del monachesimo italo‐greco e basiliano, tra cui spicca San Bartolomeo da Simeri, e poi, successivamente il Beato Antonio da Olivadi, e recentemente la carmelitana Beata Maria Candida dell’Eucaristia. L’impulso a ricercare testimoni di santità nella nostra diocesi è venuto dal Concilio Vaticano II che ha richiamato con forza il tema della santità come vocazione universale di tutti i battezzati «chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» (LG 40). Al Concilio si aggiunge l’indicazione venuta nel Sinodo Diocesano del 1995 che ha invitato a riscoprire figure di sacerdoti, consacrati e laici che hanno lasciato tracce significative di santità nel lontano e recente passato. Oggi noi raccogliamo i primi frutti di queste ricerche accurate che ci consentono di ammirare la vita buona del Vangelo che ha segnato lʹesistenza di due nostre sorelle. Esse hanno attestato concretamente che, come ha ricordato papa Francesco in Gaudete et Exultate, la santità è la via per tutti i cristiani, chiamati a santificarsi nel quotidiano per diventare i santi della porta accanto nella città degli uomini.
La santità, lo sappiamo bene, è la coerente sequela di Cristo Servo, povero umile e sofferente, incarnando le beatitudini. In questa prospettiva si può comprendere la nota comune che contraddistingue il percorso delle due beate di oggi che è la sofferenza e l’assimilazione a Cristo crocifisso, il quale, come dice San Paolo, è l’unico vanto dei credenti perché nella croce si rende visibile l’amore infinito di Dio per gli uomini, amore che dal Crocifisso Risorto si irradia e si diffonde attraverso creature fragili e miti che diventano il riflesso della tenerezza divina.
In questa luce possiamo dire che Nuccia e Mariantonia hanno annunciato e testimoniato un Dio che esce dai nostri schemi, si sporca le mani con la nostra umanità malata, che si fida e scommette su di noi. Un Dio che ci stupisce ed investe sulle nostre fragilità per farle diventare risorse e splendido ornamento. Questo Dio continua a stupirci oggi perché ha scelto queste sue due umili serve per manifestarsi e rendersi presente.
Si tratta di due donne straordinarie, accomunate dalla sofferenza, dalla malattia, dalle prove e dal sacrificio: esse, con una serenità costante ed eroica, per 60 anni hanno forgiato nella fragilità della loro immobilità la loro fedeltà alla volontà di Dio, diventando progressivamente unʹofferta dʹamore per lʹumanità. Tale risultato è stato raggiunto attraverso il nutrimento dellʹEucaristia, nella luce costante della Parola di salvezza e nella compagnia della devozione mariana; queste sorgenti di grazia hanno trasformato le nostre beate in strumenti vivi della consolazione divina facendo in modo che le loro case diventassero luoghi di accoglienza e di irradiazione del Vangelo della misericordia di Dio. Per questo motivo, Nuccia e Mariantonia costituiscono la prova concreta del fatto che la cultura dello scarto di fatto impoverisce la comunità umana perché spesso non consente a persone sofferenti, ma dotate di una ricchezza umana e spirituale traboccante, di essere una risorsa per tutti. Dalla celebrazione di oggi viene, invece, un messaggio del tutto contrario alla cultura dellʹemarginazione, che invita tutti a rispettare e a valorizzare la vita in ogni condizione, soprattutto quando la disabilità e la sofferenza ne limitano lʹespressione.
Eminenza, facendo tesoro dell’esempio delle beate e consapevoli della grazia abbondante che Dio misericordioso ci elargisce oggi, ci vogliamo tutti impegnare perché la nostra comunità diocesana possa continuare a perseguire la meta alta della santità e non deludere le attese di Dio su ciascuno di noi.
E nel ringraziarLa ancora una volta chiediamo la sua paterna benedizione che avvalora e consolida questo nostro impegno e che sicuramente raggiunge anche tutti quelli che con il loro umile contributo hanno reso possibile lʹevento che stiamo vivendo oggi. Tra questi un pensiero particolare di gratitudine va al Postulatore romano, padre Carlo Calloni, che si è prodigato perché lʹesistenza trasfigurata dallʹamore delle nostre beate fosse ufficialmente riconosciuta.
Concludo salutando tutti i credenti che partecipano alla nostra celebrazione, (anche quelli che seguono attraverso la tv, attraverso la preziosa disponibilità di Video Calabria) ed esorto tutti a pregare per la comunità diocesana di Catanzaro ‐ Squillace perché possa, nella grazia di questo evento, avere la forza di affrontare il suo complesso presente e immaginare profeticamente il suo futuro di speranza nella comunione.
+ Angelo Raffaele Panzetta
Arcivescovo di Crotone – Santa Severina
Amm. Apo. dellʹArcidiocesi Catanzaro ‐ Squillace
Considerando la figura delle due beate – Maria Antonia Samà e Nuccia Tolomeo – non ci è difficile riconoscere, nel cuore della loro imitatio Christi, un elemento comune, che ha un nome difficile, terribile: sofferenza. Vi sono entrate in modo diverso – in forme addirittura inquietanti, la beata Maria Antonia, e con un doloroso sviluppo naturale l’altra – ma ambedue in forma progressiva, in continua crescita sì da diventare, l’una e l’altra, somiglianti a Cristo, vir dolorum et sciens infirmitatem (cf. Is 53,3). Di lui – nel brano che abbiamo insieme ascoltato dalla lettera agli Ebrei – si dice che fu reso perfetto per mezzo delle sofferenze. Riflettiamo, allora, su questa espressione, giacché pure questa non ci è di facile e immediata intelligenza. Perché questo paradossale rapporto?
Di Gesù l’Autore ci dice anzitutto che è un «capo che guida alla salvezza»; aggiunge, quindi, che egli è «colui che santifica» e conclude che lo stesso non si vergogna di chiamarci «fratelli»! C’è un crescendo in questi tre titoli sicché l’uno approfondisce e spiega l’altro. Gesù è per noi una guida, ma non di quelle che ci danno semplicemente delle indicazioni, bensì uno che ci prende per mano e ci accompagna nel cammino e questo lo fa perché ci vuole bene, ci ama.
Lui, che è santo e santificatore, non si vergogna della nostra debolezza e nemmeno del nostro essere peccatori. Questa nostra condizione non lo spinge ad abbandonarci. Così, nel caso, ci comportiamo noi! Quando qualcuno ci dispiace, o ci delude, o ci offende allora prendiamo le distanze, interrompiamo i contatti, lo cancelliamo dalla nostra agenda … Gesù, al contrario, prende su di sé la sofferenza e giunge a dare la vita per noi. «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me», scriverà, colmo di stupore e gratitudine, san Paolo (cf. Gal 2,20).
L’Autore della Lettera agli Ebrei dice: non si vergogna. La «vergogna» nel racconto della creazione dell’uomo nasce col peccato, ma Gesù è l’Innocente, perciò non si vergogna; anzi salva e santifica. Sant’Agostino spiega: «Non si vergogna di chiamarli fratelli. Queste parole cos’altro significano se non che egli si è reso partecipe della loro stessa sorte? Difatti noi non saremmo mai diventati partecipi della sua divinità se egli non si fosse reso partecipe della nostra mortalità. E proprio perché si è reso partecipe della sorte dei propri fratelli, egli poté parlare di quel grano caduto per terra, che messo a morte portò frutto abbondante» (Esposizione sul salmo 118, Disc. 16, 6: PL 37, 1546- 1547).
Gesù fu reso perfetto per mezzo delle sofferenze. Lo fu certamente perché la via dolorosa è conseguente al mistero della sua incarnazione: si fece uomo nel grembo della Vergine, diciamo nel simbolo di fede. Qui però il testo sacro non si limita a dirci che il Figlio di Dio si è fatto uomo; si afferma, anzi, che si è fatto fratello e questo sottolinea la presenza di un valore aggiunto, l’amore di Cristo per noi. «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me»: tra la sofferenza e la perfezione c’è l’amore. È l’amore che congiunge la sofferenza alla perfezione.
Spiegando il nostro testo Benedetto XVI una volta disse: «il Figlio ha assunto la nostra umanità e per noi si è lasciato “educare” nel crogiuolo della sofferenza, si è lasciato trasformare da essa, come il chicco di grano che per portare frutto deve morire nella terra. Attraverso questo processo Gesù è stato “reso perfetto”, [termine che] indica il compimento di un cammino, cioè proprio il cammino di educazione e trasformazione del Figlio di Dio mediante la sofferenza, mediante la passione dolorosa» (Omelia nella solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, 3 giugno 2010). Nella medesima prospettiva di un cammino di educazione e trasformazione possiamo guardare pure alle nostre due Beate.
Maria Antonia Samà, conosciuta come la monachella di san Bruno. Conformandosi in tutto alla divina volontà, ella amava ripetere: «Tutto per amore di Dio». E accadde che proprio la sua sofferenza offerta per amore produsse in quanti la conoscevano un potente impulso di carità sicché attorno a lei esplose l’amore. Lei accoglieva con gioia e umiltà chiunque volesse entrare nella sua casa e d’altra parte l’intero paese si mobilitava per soccorrerla e accudirla. Ci fu così un meraviglioso scambio di doni e questo perché l’amore fa nascere amore. Un antico assioma dice che la caratteristica propria del bene è di farsi conoscere e di essere comunicato ad altri, gratuitamente, come sua ragion d’essere, senza altro scopo che questo. Bonum est diffusivum et communicativum sui diceva anche san Tommaso d’Aquino e una volta aggiunse: «ed è per questo che il bene moltiplica la bontà» (Super Mt. [rep. Leodegarii Bissuntini], cap. 25 l. 2). È quanto si è verificato con la nostra Beata che ebbe da Dio la grazia di vivere tutto come dono, divenendo essa stessa dono per gli altri.
Con lei c’è la beata Gaetana Tolomeo, da tutti conosciuta come Nuccia. Anche la sua fu una vita colma di sofferenza, ma fu pure una vita ricolmata e ricolma d’amore. Segnata come fu sin dai primi anni di vita da una paralisi progressiva e deformante, per amore di Cristo ella trasformò la sua disabilità in apostolato per la redenzione dell’uomo. Ripetendo: Ti ringrazio Gesù di avermi crocifissa per amore, divenne ella stessa un esempio di gratitudine per la vita ricevuta. «Sono Nuccia – diceva – una debole creatura in cui si degna operare ogni giorno la Potenza di Dio». In effetti la sua vita terrena fu ricca non di eventi e opere grandiose, ma di grazia e di adesione totale al volere di Dio nella semplicità quotidiana. Due mesi prima di morire lanciò ai giovani di Sassari questo messaggio: «Ho 60 anni, tutti trascorsi su un letto; il mio corpo è contorto, in tutto devo dipendere dagli altri, ma il mio spirito è rimasto giovane. Il segreto della mia giovinezza e della mia gioia di vivere è Gesù. Alleluia».
«Conveniva che Dio rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza». Quello che Dio ha fatto nel capo lo ha fatto anche nelle membra di Lui. È questa la storia della santità: di queste due beate, ma non di loro soltanto.
Quella della santità, infatti, è la storia della forza di Dio nella debolezza umana.
Così è stato per la Vergine Maria: «Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente» (Lc 1,49); così per tutti.
La santità è, come insegna Papa Francesco, proprio l’incontro della debolezza umana con la forza della grazia (cf. Gaudete et exsultate, n. 34).
Catanzaro, Basilica dell’Immacolata, 3 ottobre 2021
Marcello Card. SEMERARO