Pubblichiamo di seguito il testo dell’Omelia tenuta da Mons. Francesco Isabello, delegato arcivescovile per il Clero e il Diaconato Permanente, in occasione della celebrazione Eucaristica per il 40° anniversario di Ordinazione Presbiterale di S.E. Mons. Claudio Maniago:
Pervasi dalla gioia pasquale, una volta ancora ci ritroviamo insieme per rendere grazie al Signore, per il dono del Presbiterato alla sua Chiesa del nostro Vescovo Claudio.
La gioiosa circostanza di questo quarantesimo ci offre l’opportunità, prendendo spunto dalla Parola appena proclamata, di meditare insieme sul dono del sacerdozio ministeriale, veramente dono e mistero.
Come in un film tanti sono i fotogrammi che passano nella nostra mente: sono volti, parole, gesti, che ci hanno accompagnato; ricordando che ogni vocazione è storia personale intima, generata dall’Alto, da un Dio che mai si dimentica del suo popolo. Ci si trova così come Mosè davanti al roveto che arde senza consumarsi, a cui è chiesto: «togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!» (Es 3, 5).
Ma davvero? Credo che questa esclamazione, mista di sorpresa e stupore, è risuonata nel nostro cuore quando abbiamo avvertito la chiamata a qualche cosa di grande… Come l’Apostolo Paolo siamo rimasti folgorati e ci siamo chiesti: «Chi sei, o Signore?» (At 9, 5). Siamo stati raggiunti in una stagione della nostra vita in cui progettavamo, sognavamo altro. Il Risorto ha parlato al nostro cuore e cambiando le carte dei nostri progetti, riportando un ordine provvidenziale tra il disordine creato dai nostri piani. E pur avvertendo il nostro limite, ha reso preziosa la nostra creta versando un tesoro che scopri giorno dopo giorno grazie ai tanti Anania che ti mette accanto (cfr At 9, 10-19) donandoti occhi nuovi capaci di vedere che «questa straordinaria potenza appartiene a Dio» (2Cor 4, 7). Ci siamo innamorati come Paolo tanto da ripetere «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20); «per grazia di Dio, però, sono quello che sono» (1Cor 15, 10); «tutto posso in Colui che mi da la forza» (Fil 4, 13). Paolo ci ricorda una esistenza spirituale alta: peccatori si, ma afferrati da Cristo (cfr Fil 3, 12-14). L’Apostolo dopo l’esperienza di Damasco ha iniziato con il Vivente una intimità profonda da poter dire «fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo» (cfr 1Cor 4,16; 1Cor 11,1; Fil 3,17; 2Ts 3,7). Sulla via di Damasco l’Apostolo ha compreso che Cristo si identificava con la comunità dei credenti in Lui: «Io sono Gesù, che tu perseguiti» (At 9, 5). E grazie a questo potrà dire alla Chiesa di Corinto: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno.» (1Cor 9, 22). Per noi preti questo si esprime nella vicinanza quotidiana al popolo che il Signore ci affida e per l’attenzione ad ogni persona di cui si è diventati padri: «potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (1Cor 4, 15); «siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli» (1Ts 2, 7).
Il Vangelo che abbiamo proclamato parla di carne e sangue e ci rimanda all’Incarnazione, per cui possiamo dire a Cristo «ecco noi siamo tue ossa e tua carne» (2Sam 5, 1), e rimanda all’Eucarestia quando nella notte in cui veniva tradito donò a noi il suo corpo e il suo sangue (cfr 1Cor 11, 23-26). Mi piace pensare al giorno della nostra Ordinazione quando ci furono consegnati il pane e il vino per il sacrificio eucaristico e ci fu raccomandato di imitare ciò che avremmo celebrato e di conformare la nostra vita al mistero della Croce (cfr Pontificale Romano). Ogni prete può dire un corpo mi hai dato, ecco io vengo per fare la tua volontà (cfr Eb 10, 5-7). Così è stato per Cristo che ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei. Così il prete ripetendo le parole della consacrazione – «questo è il mio corpo, questo è il mio sangue…» – diventato uno solo con il Cristo può, con tutto lo slancio dell’amore, presentarsi come sposo con un corpo donato per amore (cfr 2Cor 11, 2). Così siamo chiamati a vivere una mistica nuziale che, giorno dopo giorno, ci configura a Cristo sposo per cui tutto il nostro essere preti viene significato e specificato da questa dimensione sponsale, e tutta la comunità è arricchita dal Cristo sposo, che sempre ama, perdona, riconcilia, si incarna, proclama la Parola, dona il suo Corpo, offre il suo Spirito (cfr Ef 5, 21-32). La comunità plasmata da questi doni nuziali diventa sposa bella adorna di gioielli pronta per le nozze eterne (cfr Ap 21, 2.11), e diventa capace di relazioni intessute d’amore dove si sperimenta l’accoglienza, la tenerezza, la misericordia, il perdono, l’amore vero ed autentico. Sarebbe una ricchezza enorme per tutta la Chiesa se noi presbiteri potessimo sempre riconoscersi in questo servizio quanto mai prezioso e decisivo, senza mai dimenticarci, come ci ricorda S. Agostino, che si è ministri a beneficio della comunità, ma rimanendo allo stesso tempo parte di essa! (cfr Sermo 340,1: PL 38, 1483).
Dono, mistero e stupore risuonano nel nostro cuore. Ci sia data la grazia allora in questo giorno di rinnovare con il nostro Vescovo Claudio l’impegno ad essere veri discepoli, testimoni disponibili, sensibili, amabili, gioiosi. La vocazione del nostro Vescovo ricorda a tutti noi che la chiamata non smette mai di meravigliarci e di aprire prospettive nuove… quaranta anni di sacerdozio, vent’anni di episcopato … pur rimanendo radicati a quella chiamata originaria che ci ha fatto condividere il sogno di Dio. Un augurio che diventa preghiera per Lei e per noi presbiteri, e che rubo al cuore e alle labbra sacerdotali del beato Francesco Mottola:
«Gesù dammi un sacerdozio santo.
Quell’ora sarà la più bella della mia vita…
Tutto, tutto, tutto
senza riserva è il mio fermo proposito….
(da Diario dello Spirito, 31 marzo 1924)
Tutto, con la voce
Tutto, con la volontà
Tutto, con il cuore.
Tutto, perennemente senza richiedere nulla…
Un amore senza ritorni, senza riporsi,
senza confini…
così si diventa buon pane
pane divino per le anime».
(da Faville della lampada, 371-372)